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Walter Rossi Ciao Da Walter Rossi. Per tentare di dare un'idea di che cosa abbia rappresentato per me Pierangelo Bertoli, invio uno stralcio del racconto che ho scritto, dedicato alla fabbrica siderurgica in cui ho lavorato come disabile per 25 anni, e che è stata chiusa l'anno scorso. La sua voce e il suo cuore mancherà a tutti, ma noi disabili forse abbiamo un motivo in più per apprezzarlo ed amarlo. Un saluto a tutti, un grazie a Bernardo Fallani. Nelle ultime settimane di vita della fabbrica ascoltavo frequentemente “Rosso colore” di Pierangelo Bertoli, dal vecchio disco di vinile. Uno dei primi dischi che avevo comprato con i primi stipendi guadagnati alla TG Tubi. Lo avevo trasferito anche sul nastro, per riprodurlo in auto a volume sostenuto. “Perché chiusero la fabbrica e ci tolsero il lavoro, e ci resero la vita molto dura”, era il ritornello che nella mente spesso mi accompagnava alle assemblee, alle manifestazioni, ai presidi. Le immagini che la voce chiara, forte e pulita di Bertoli evocavano, quando in passato ascoltavo in cuffia l’ellepi, avevano la tonalità seppia, sembravano appartenere ad un’epoca che consideravo definitivamente tramontata. Avevo poco più di vent’anni e la rivoluzione sandinista aveva appena trionfato, un feroce dittatore era stato cacciato, dopo la cocente sconfitta dell’esperienza di Unidad Popular di Salvador Allende e il bagno di sangue che ci ha visto tutti impotenti, increduli, addolorati. Una sensazione che affiorava sistematicamente anche negli anni successivi, quando ascoltavamo con viva partecipazione le melodie tristi, ma cariche di speranza, almeno così ci pareva quando alzavamo i pugni sulle note di Venceremos o di El pueblo unido jamas sera vencido, dei concerti degli Inti-Illimani. La liberazione del Vietnam, l’indipendenza dell’Angola e del Mozambico, la rivoluzione in Etiopia, precedevano quel momento storico che al tramonto degli anni 70, nonostante il Cile, pareva che dovesse imprimere al mondo una direzione dalla quale non sarebbe più tornato indietro. Ingenuamente ci credevamo forti, invincibili. I n camera tenevo appeso il poster del quadro di Pelizza Da Volpedo, Quarto Stato. Il soggetto e i colori di quest’opera rappresentavano magnificamente un’epoca, a cominciare proprio dall’inizio del novecento, che vedeva mettersi in marcia una massa che pretendeva, con la ragione della propria dignità, di un riscatto secolare da esigere, la forza del lavoro attivo, produttivo, di diventare finalmente protagonista di tutta la storia a venire. L’allegoria del quadro era evidente nella sua potenza descrittiva: una massa di lavoratori che si muoveva con pacata e ineluttabile determinazione dal tramonto dell’età dell’oppressione verso l’alba radiosa dell’avvenire. Era chiaro, proprio come il sole, così doveva essere. Quando Pierangelo Bertoli cantava “ho visto nei miei sogni un tempo d’oro, dove la vita si misura col lavoro” intendeva trasmettere questa convinzione, accesa ancora settant’anni dopo. Ascoltando oggi questi testi mi coglie la sensazione drammatica di una inversione del processo, il senso del moto di un pendolo, che si muove in una direzione per procedere, dopo una pausa impercettibile, immediatamente a ritroso, per l’effetto delle leggi della fisica che l’uomo non può modificare.
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